Il Vecchio e il Mare (Ernest Hemingway)

Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce

Già dalle prime righe si definiscono i concetti chiave di questo breve romanzo: la senilità e la solitudine.
Santiago è un vecchio marinaio che oramai è diventato salao, ossia affetto dalla peggior forma di sfortuna, che prende il mare giorno dopo giorno per cercare di pescare tanto pesce da poterlo vendere.
Al quarantesimo giorno di sfortuna consecutiva lo abbandona anche il ragazzo a lui affidato perché potesse imparare un mestiere.
Ed è qui che Il vecchio e il mare si rivela anche la storia di un’amicizia speciale tra Santiago, il pescatore, l’uomo solo, povero e malato e il suo apprendista che, nonostante il veto dei genitori di proseguire ad andare a pesca con lui, non lo lascia a sé stesso ma anzi lo accudisce procurandogli cibo, esche fresche e affetto.

Ma la fortuna, si sa, segue i refoli del vento e, come esso, muta tanto da aiutare, prima, Santiago ad agganciare all’amo un enorme marlin e poi lo porta alla disperazione facendogli perdere l’enorme pesce che finisce divorato dagli squali.
Ed è proprio nel lasso di tempo della lotta tra l’essere umano e la natura impersonificata dal marlin, che si evolve emotivamente il racconto lungo: la maestria di Hemingway sta proprio nel dare voce alla solitudine del vecchio aggrappato al marlin che lo ha portato in mare aperto e alla caducità umana.
Il vecchio Santiago si muove come un attore sul palcoscenico della vita cercando di aggrapparsi ad essa sebbene sofferente, stanco, affamato deprivato della propria dignità di uomo.

 

I monologhi di Santiago che si appella vecchio o i dialoghi muti con gli uccelli, i pesci o la mar sono permeati di una tristezza strisciante ma anche di una forza espressiva potentissima.
Santiago riacquista la propria dignità nella battaglia finale con il Marlin:

Mi stai uccidendo, pesce, pensò il vecchio. Ma hai diritto di farlo. Non ho mai visto nulla di grande e bello e calmo e nobile come te fratello. Vieni a uccidermi. Non importa chi sarà ad uccidere l’altro.

In quel momento, riconoscendo il valore e la potenza dell’essere di fronte a lui, accettando la fratellanza con esso e, quindi, la divinità insita in ogni creatura si riappacifica con la sua umanità.
Romanzo breve scritto nel 1951, questo di Hemingway, che potrebbe definirsi una elegia del rispetto dell’altro sotto ogni forma esso si sostanzi, meriterebbe, visti i tempi, di essere rispolverato dalla libreria.

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