Dopo il diluvio, Leonardo Malaguti, ἐxòrma

Una delle cose che mi ero ripromesso di fare durante trasferta per Più libri più liberi era di andare a visitare lo stand di xòrma, casa editrice romana che avevo avuto il piacere di conoscere a Pistoia, all’interno della rassegna L’anno che verrà. Curiosando tra le collane della casa editrice, quella che mi colpisce è Quisiscrivemale. Di che cosa si tratta? Ve lo faccio dire da loro:

“quisiscrivemale” cerca di ritagliare un àmbito nel quale autori contemporanei, che decidano di non sottostare al vincolo della narrazione e della “storia” a tutti i costi e scrollarsi di dosso la preoccupazione del “come va a finire”, possano trovare un’occasione. Vorremmo anche riconsiderare la narrativa “come una delle possibili tentazioni della prosa” della quale rintracciare esempi vitali; trascurare le scritture sfiancate e addomesticate alla necessità del farsi vedere; sbarrare il passo all’omologazione dei contenuti, alle strettoie dei generi.

E quindi sono di fronte a un luogo libero, svincolato dalle regole, dalle strutture, non omologato. La cosa mi incuriosisce; nome oggettivamente atipico e grafica dei volumi semplice e invitante: sulle copertine compare un estratto della storia.
Quando vi girerete tra le mani un volume della collana capirete subito di essere di fronte a qualcosa di insolito. Perché? Perché la copertina, appunto, si stacca come fosse una sovracopertina, lasciando il testo nudo e crudo, protetto solo da un cartoncino nero.

Ma se il nome della collana suggerisce, ironicamente, un prodotto di bassa qualità, il romanzo di cui sto per parlare è tutt’altro che scadente.

Dopo il diluvio, Leonardo Malaguti

Pioggia. Pioggia forte, torrenziale. Un vero e proprio diluvio.
Una valle con un problema di troppo alle condotte di scarico, che si allaga sino a coprire le strade. Chi si muove lo fa in barca, qualcuno si rifugia sugli alberi. Siamo in un paese del centro Europa (Germania? Svizzera?) presumibilmente nei primi anni del Novecento.

Quando finalmente il problema viene risolto e la valle si libera dall’acqua, il romanzo può cominciare.
Dopo il diluvio, dunque.
E mi viene subito in mente un “dopo la tempesta” che chiama “la quiete” di una campagna al suo risveglio, che riprende il suo ritmo lento fatto di gesti e consuetudini, per scivolare in una riflessione sul piacere e sulla cessazione del dolore.

Ma questo “dopo” è poco poetico anzi, non lo è affatto: non c’è niente di quella quiete. L’entusiasmo del paese che riprende a vivere dopo il diluvio è spazzato via dal funerale di un bambino che però non può essere celebrato perché manca il pastore.
Il motivo? È al bordello. E siamo ancora a pagina 34.

Malaguti inizia così una narrazione surreale, con uno stile a tratti fiabesco; personaggi caricaturali, macchiette che dialogano in modo teatrale; all’interno di questa messa in scena non mancano richiami al nostro quotidiano: per esempio quando si assiste al rifiuto dei consiglieri comunali di assumere un ruolo e prendersi le proprie responsabilità. Tutto è paradossale, ai limiti del plausibile, ma vale la pena stare al gioco… sino a quando non ci scappa il morto.
Adesso non si riesce a capire se si fa sul serio o se è davvero una commedia; una commedia travestita da giallo, a questo punto, dato che oltretutto il morto non è una persona qualunque: è il sindaco del paese.

Il commissario inizia a indagare, ma preso si rende conto che qualcosa in paese è cambiato:

Ho un brutto presentimento, mamma.
È dalla fine della guerra che ho brutti presentimenti.
Sì, ma stavolta è qualcosa di serio. Ho paura che l’acqua abbia scrostato via un sigillo che doveva rimanere chiuso.
Che intendi?
Il paese è in fermento. Non riesco a togliermi questa sensazione di dosso.
[…]
C’è qualcosa nell’aria e non sei l’unico ad averlo notato. Venders è solo l’ultima goccia, come hai intuito. Sta arrivando qualcosa, non so da dove, non so in che modo, ma questa che senti è aria di guerra.

Il commissario Adam Van Loot vede adesso la cattiveria silenziosa nelle persone; personaggi sino ad allora pacifici rivelano il loro lato oscuro, o sembrano impazzire, come il placido Signor Keller, che si macchierà di una violenza contro una delle ragazze del bordello; una cattiveria strisciante, pronta a esplodere persino nei bambini.

Il linguaggio teatrale che ci aveva condotto sino a questo punto viene abbandonato a favore di una bella scrittura, cui basta poco per essere efficace come quella dei grandi scrittori.
Il romanzo era iniziato in modo un po’ assurdo, con la necessità di togliere il tappo alla conca del paese sommerso dall’acqua e ora ci troviamo di fronte a qualcosa che è tutto fuorché assurdo, e una comunità che sembra piombata nella paranoia collettiva.
C’è chi pensa di sfruttare il momento: e se proprio adesso, qualcuno volesse entrare nella storia, annullando un paese che sarebbe morto comunque, ma donandogli una fine spettacolare?

Il linguaggio fiabesco dei primi capitoli è scomparso: adesso c’è un nemico da combattere! Rimangono i fatti che accadono, assurdi, al limite del reale.

La trama si fa interessante anche se per lunghi tratti appare sottile, appena delineata, quasi come se corresse sottotraccia seguendo i movimenti del commissario: sono i personaggi a prevalere, a fare del testo un romanzo corale; sono loro, persino quelli più marginali, che di volta in volta prendono la scena e fanno la loro giusta parte (Jenny la prostituta, o il rabbino Blum per citarne un paio). Ma loro sembrano solo pedine che si muovono tra a personaggi di prim’ordine come il pastore Thulin, il Generale Krauss, ed Eda Gebick, la Madame del bordello. Persino il sindaco Otto Venders, personaggio non attivo per eccellenza (lo conosciamo solo da morto) riesce a essere caratterizzato e a essere decisivo nello sviluppo della trama.

La scrittura di Malaguti ormai ha abbandonato ogni copertura e si mostra sapiente e consapevole; chiede al lettore di starle molto vicino, per cogliere tutte le sue sfumature.

Si parla di psicosi collettiva, che riempie gli animi di fervore, di una sorta di gioia. E quando il popolo si unisce per prepararsi alla battaglia contro il nemico comune (e sconosciuto) e individua nel bordello di Eda Gebick il primo obiettivo, non può non venire in mente l’aforisma secondo il quale quando i poveri si convincono che i propri problemi dipendano da chi sta peggio di loro, siamo di fronte al capolavoro delle classi dominanti. I riscontri con la contemporaneità non sembrano avere fine.

Martin e Lisetska, due amanti in fuga, incarnano per quasi tutto il romanzo la speranza che sia possibile sottrarsi al delirio collettivo. Ma saranno proprio loro a pagare le conseguenze più tragiche di questa vicenda: la scrittura del rogo di Lisetska è qualcosa che entra nel profondo, che rimane nelle narici come l’odore della carne bruciata. Pagine poetiche, intense, che tengono il lettore sulla pagina: siamo con lei, che è innocente e muore per colpa dell’ignoranza altrui.

Ora che si è consumata la tragedia, il romanzo può finire.

Malaguti chiude con lo stesso personaggio con cui ha aperto. Ce lo eravamo quasi scordato e lui, che non ha saputo niente di quello che è successo, torna in scena con la pretesa di riprendere esattamente da dove aveva lasciato: la storia potrebbe anche ripetersi, si ripeterà.

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